Uno spazio ibrido e caleidoscopico per l’arte e l’incontro a Bologna.
Due fra le dieci fondatrici, Norina Iezzi e Giulia Monte, ci hanno accolto all’interno della sede di Parsec in Via del Porto per raccontarci l’inizio e lo sviluppo del loro collettivo e dell’associazione.
Di Linda Carluccio e Sonia Gasparini
Linda Carluccio: Abbiamo notato quanto sia forte la vostra realtà e i vostri obiettivi, chiari e definiti anche all’interno del vostro statuto. Fra questi, in primis, si annoverano il dialogo e il confronto. Da qui prende avvio l’operazione di A Priori magazine e per tali ragioni abbiamo scelto di interfacciarci con voi.
Sonia Gasparini: Innanzitutto come è nato Parsec? Quali ragioni vi hanno spinto a inaugurare uno spazio autogestito? Quale insieme di visioni, idee e convinzioni lo caratterizzano?
Norina Iezzi: Parsec nasce da un’esigenza prima di tutto personale, propria di ognuna di noi, di mettere in pratica sia le nostre passioni che le nostre esperienze. Ci siamo incontrate dapprima online durante il lockdown nel 2020 e sono emersi da subito comuni obiettivi, seppur con sfumature differenti. Pian piano ci siamo conosciute meglio e abbiamo deciso di unire le forze e le idee.
Le prime riunioni si sono svolte online per l’appunto e in seguito, a giugno, finalmente ci siamo conosciute di persona. Abbiamo deciso di fondare un’associazione e di trovare uno spazio qui a Bologna.
Come dicevo prima, la spinta maggiore è stata quella dovuta a un’esigenza forte anche dettata dal fatto che il mondo lavorativo in questo settore è molto problematico.
Alle spalle abbiamo tutte studi differenti, io ad esempio ho studiato Didattica e Comunicazione dell’Arte, Giulia illustrazione, e le altre fondatrici fotografia, beni culturali, grafica e curatela. Abbiamo da subito considerato le nostre diversità come un punto di forza, le nostre molteplici esperienze potevano dunque solo arricchirci.
Considerando il difficile inserimento lavorativo proprio del nostro ambito ci siamo dette: «bene, è difficile potersi esprimere? Creiamo un posto nel quale fare ciò che vogliamo, mettendo in pratica le nostre competenze. Uniamoci». Da qui è nato Parsec.
LC: Sicuramente una cosa importante da portare in luce è proprio il vostro team. Il fattore di essere tutte donne, ad esempio, è stata una casualità dettata da piacevoli circostanze o una scelta a monte?
NI: è stata una casualità. Ci piace questo aspetto – ride – ma non è mai stata un’imposizione. Seguendo una delle caratteristiche proprie di Parsec, quella di essere il più aperte e inclusive possibile, non abbiamo mai volutamente cercato un team esclusivamente al femminile.
Giulia Monte: Ciò poteva risultare molto difficile perché effettivamente è sempre complicato collaborare. Siamo attualmente dieci persone che guardano tutte nella stessa direzione, ma da diversi punti di vista ed è questo che ci ha portato a scegliere il nome Parsec. Si tratta di una unità di misura astronomica fondata sulla parallasse.
NI: Meccanismo secondo cui se guardi lo stesso oggetto da vari punti di vista ti sembra cambiare, spostarsi nello spazio, nonostante l’oggetto sia lo stesso nella medesima posizione.
GM: Ciò che mi stupisce pensando a noi è che tutte abbiamo discipline differenti nel nostro bagaglio culturale, abbiamo perciò tutte una diversa visione ma comune. Questo fa sì che ognuna di noi possa apportare un pezzetto del proprio background così da costruire un qualcosa di più grande e ciò rappresenta un forte vantaggio.
SG: L’unità di misura del Parsec, 3,26 anni luce, mi ha fatto pensare a uno dei vostri primi progetti, Close per cui bisognava osservare attraverso un foro, spiare e guardare a fondo: lo sento concettualmente vicino alla questione del Parsec, è effettivamente così?
NI: Beh è un nuovo interessante punto di vista. Sicuramente in un primo momento non abbiamo pensato di realizzare un progetto che si connettesse al concetto di Parsec, forse l’abbiamo incluso involontariamente.
GM: È molto bello quello che ci dici. Abbiamo creato Close per darlo in pasto, nel senso che c’era un QR, un titolo e una buchetta, ma l’opera rimaneva aperta alle interpretazioni.
NI: La cosa interessante, che riprende i nostri obiettivi – il dialogo e confronto di cui si parlava prima – è stata anche quella che volevamo ricevere l’interpretazione di chi passava a vedere il lavoro. Noi partiamo e offriamo dei contenuti, ma è fondamentale sapere cosa questi diano al pubblico perché, anche lì, non c’è mai un’unica direzione.
GM: Il tutto era inoltre pensato per rispondere alla situazione particolare che stavamo vivendo. L’atto di guardare attraverso un buco ti riporta contemporaneamente a qualcosa che hai, ma che allo stesso tempo ti viene negata. Non puoi raggiungerlo, lo sbirci. Di duchampiana memoria sicuramente, ma coincidente con il momento che si stava vivendo.
SG: All’interno del sistema dell’arte gli spazi indipendenti svolgono il ruolo fondamentale di trampolino di lancio per l’emergere di nuovi artisti, idee e valori che difficilmente troverebbero respiro negli spazi istituzionalizzati. Da un lato una forte spinta all’innovazione, dall’altro doversi confrontare con un sistema precario e instabile. Come vi ponete all’interno di questo clima? Potete contare su aiuti stabili?
GM: È importante per noi dare la possibilità a chi è ancora fuori dai sistemi istituzionali di avere uno spazio in cui mostrare e raccontare il proprio lavoro. Cerchiamo di dare più supporto e riconoscimento possibile, nei limiti delle nostre possibilità.
NI: L’aspetto economico è sempre una nota dolente. Quello che facciamo è quanto possiamo permetterci di fare. Crediamo e supportiamo il più possibile le artiste e gli artisti, intraprendiamo diverse collaborazioni proprio perché viviamo in prima persona determinate problematiche: il sistema instabile e precario del mondo dell’arte appunto. Proviamo a retribuire, seppure con quote molto minime, o a rimborsare almeno in parte le spese. Non è sempre facile in quanto siamo noi stessa a finanziare l’associazione, ci dividiamo cioè spese di affitto, utenze varie, motivo per cui anche nel caso dei residenti chiediamo un piccolo contributo. Per il resto cerchiamo di autosostenerci grazie al tesseramento, la camera oscura, i laboratori, la partecipazione ai bandi. Non abbiamo aiuti se non il buon senso e la comprensione di molte delle persone e realtà con le quali collaboriamo; occorre supportarsi e aiutarsi a vicenda. A tal proposito abbiamo cercato di avvalerci di diverse forme di autofinanziamento, dai bandi comunali ad una campagna di crowdfunding che abbiamo realizzato l’anno scorso grazie alla quale abbiamo potuto realizzare diverse cose, tra cui il catalogo della mostra It ends with nostalgia.
LC: La divisione dei ruoli è una questione rilevante all’interno di un gruppo di lavoro. Ognuna di voi ha una competenza specifica, ma la divisione dei compiti è stata una cosa spontanea, consapevoli ognuno delle proprie potenzialità o è stata una scelta organizzativa a monte?
NI: È stato spontaneo. Abbiamo sì, ognuna indirizzi specifici, ma allo stesso tempo trasversali. In alcuni progetti, infatti, ci si dedica a più aspetti a seconda delle circostanze. I ruoli che si sono venuti spontaneamente a creare riguardano le referenti dei settori, ad esempio quello della comunicazione, della grafica, della scrittura, ma in base al progetto che si vuole portare avanti ci si inserisce in un determinato gruppo di lavoro.
GM: Ciò è molto stimolante perché permette di fare quello che piace, compreso quello per cui si studia, il che è molto raro. Ginevra per esempio – per introdurre pian piano il team – è una grafica di professione e per Parsec realizza delle bellissime grafiche, siamo molto fortunate. Norina è il pilastro burocratico, si occupa di tali aspetti e non solo, anche della parte didattica e comunicativa che le compete. Io ho studiato Illustrazione ed Editoria in Accademia e aiuto Ginevra nella Grafica. Daria ha conseguito un Master in Multimedia per l’Arte, Silvia invece un Master in Studi e Politiche di Genere ed io con loro lavoro alla comunicazione per Parsec. Abbiamo quindi delle referenti specifiche, ma d’altra parte c’è una continua formazione e contaminazione per cui tutte ci arricchiamo un po’ l’una dell’altra.
NI: Esatto. In base al progetto che ci interessa approfondire, abbiamo la possibilità di metterci in gioco. Da una parte vi è la creazione spontanea di ruoli basati sulla fiducia e stima, dall’altra la possibilità di essere trasversali e non rimanere chiuse nel proprio ambito.NI: Sono serviti più incontri all’inizio per conoscerci, capire meglio le intenzioni e comprendere che avevamo gli stessi intenti ed energie per cominciare qualcosa insieme piuttosto che dividerci. Questo discorso rientra in diversi campi. Ad esempio, parlavamo prima delle Accademie… se ognuno continua a restare nel suo, magari riesce a fare delle cose molto belle però, ad un certo punto, ha comunque bisogno di interfacciarsi con il mondo esterno per nuovi spunti, competenze diverse e così via. Noi avevamo capito che volevamo lavorare insieme, volevamo uno spazio, ma è stato importantissimo il dialogo. Il confronto con l’altro è fondamentale.
SG: La vostra è una realtà dinamica che va ad occuparsi di vari aspetti con differenti modalità: i talks, i laboratori, le mostre, le residenze. Qual è la prerogativa per comunicare tutta questa vostra realtà multiforme?
GM: Abbiamo un piano di comunicazione che creiamo in base al nostro public program. Durante le riunioni ci chiediamo innanzitutto cosa vogliamo comunicare. La nostra base è essere semplici e dirette. Le grafiche devono essere semplici, il linguaggio deve essere comprensibile, ma non scontato. Deve arrivare a più persone possibili, ma non in modo banale. La nostra comunicazione è rivolta a tutte e tutti: a chi è dentro il mondo dell’arte e a chi non lo è. Crediamo che l’arte sia una disciplina capace di toccare più livelli e aspetti della realtà e il nostro scopo è di aprirla a chiunque.
SG: Pensavo infatti al DEEP FRYday… approfondimenti, spesso confronti che chiunque può trovare e leggere direttamente dal sito.
NI: Come diceva Giulia la comunicazione la intendiamo per tutte e tutti. Anche nel DEEP FRYday l’intenzione era di rendere facilmente accessibili i contenuti. Il linguaggio è inclusivo e non selettivo. Troppo spesso l’arte contemporanea viene percepita come distante o esclusiva e, nel nostro piccolo, volevamo dare invece un senso di appartenenza e vicinanza.
GM: Il DEEP FRYday, inoltre, è stato inizialmente scelto di svilupparlo online dunque facilmente accessibile. Dal proprio cellulare si può leggere in maniera semplice un breve articolo su un determinato approfondimento.
NI: C’è da dire, però, che siamo ibride anche a livello di linguaggi. Piano piano ci piacerebbe infatti dedicarci anche all’editoria.
GM: Si esatto, questo ulteriore approccio interessa molte di noi. Francesca ha studiato Photo editing. Io ho studiato dapprima l’editoria attraverso un’impronta più occidentale e poi approfondito quella asiatica, relativa alla cucitura a mano dei libri per intenderci. Matilde è un’altra appassionata di editoria e di fotografia, una delle artiste visive dell’associazione. Irene, anche lei artista visiva, si focalizza spesso sulla direzione artistica e la curatela. Margot è la nostra cacciatrice di bandi, ci sostiene sempre e ci propone nuove idee. Arianna è una musicista, curatrice e collezionista. Con lei ci piacerebbe parlare del mercato dell’arte e prima o poi non mancheremo di proporre degli incontri sulle diverse possibilità di collezionare, su come si vende un’opera e sugli algoritmi che ci sono per venderla in galleria. Abbiamo tanto in cantiere.
SG: Anche un laboratorio con Camilla Carroli e una mostra delle artiste in residenza, giusto?
GM: Si, fa parte del public program del progetto Parsec residency.
LC: Quindi è un evento pensato per coloro che sono qui in residenza da voi?
NC: Non solo, si tratta di momenti di dialogo e di confronto che sicuramente nascono da riflessioni portate avanti durante la residenza, ma che sono destinate al pubblico e a tutte le persone. Ad agosto abbiamo aperto la call per la terza edizione di residenze artistiche presso Parsec. La prima call l’abbiamo aperta ad agosto dell’anno scorso, in quanto ci piaceva l’idea di poter offrire ad artiste e artisti emergenti, ma anche curatrici/curatori, ricercatrici/ricercatori uno spazio nel quale portare avanti la propria ricerca personale, stimolare collaborazioni, dialogare e intraprendere nuovi scambi con persone sempre differenti. A febbraio invece uscirà la prossima call, dato che ci teniamo a proporre due cicli di residenza all’anno. L’intento comunque non è quello di rimanere chiuse tra di noi, volevamo e vogliamo coinvolgere sempre il pubblico. Con lə varə artistə che sono stati in residenza da noi (Martina Sarritzu, Jacopo Casamenti, Luca Campestri, Abd Alrahman Dukmak, Chiara Mecenero, Sissj Bassani, e le attuali artiste in residenza, Christine Bax e Camilla Carroli) abbiamo di volta in volta curato un public program che prevede studio visit, open studio, talk, laboratori e crit.
LC: Potete spiegare il format del CRIT?
NI: Il format funziona di base così: l’artista espone un’opera senza dire nulla in merito, solo titolo e materiali. In questa prima parte il pubblico – che speriamo sia sempre il più eterogeneo possibile e non solo composto da addetti ai lavori – osserva l’opera, qualcuno/a magari si avvicina e pian piano inizia un dibattito libero sia sul fronte contenutistico che sull’allestimento.
GM: Si parla di cosa l’opera dà anche a livello emotivo.
NI: Sì, ad esempio «questa cosa mi disturba perché non capisco se posso toccarla o meno» e così via. Si indagano così i diversi tipi di relazione che possono innestarsi in base all’opera e ai presenti.
GM: È un format che piace molto. Sicuramente chi di noi assiste può dare il via per rompere il ghiaccio.
NI: L’incontro dura circa 45 minuti. Nella seconda parte l’artista interviene e risponde alle possibili domande emerse in precedenza. È un modo per crescere nella propria pratica, avere un confronto in più e, allo stesso tempo, è un’occasione per il pubblico di non essere mero spettatore. In generale è un mettersi in gioco da entrambe le parti.
GM: Dicono che le CRIT migliori funzionino quando l’artista ne esce sconvolto perché deve emergere quel qualcosa che l’artista non riesce a vedere nel proprio lavoro. È lì l’arricchimento.
NI: D’altronde anche per noi è stato un mettersi in gioco fin dall’inizio.
LC: In che modo i vostri progetti continuano nel tempo e si inseriscono in un discorso – sempre che lo facciano – di economia dell’arte? Quali sono le figure con cui entrate maggiormente in contatto?
NI: È molto importante per noi essere in sintonia con il territorio nel quale viviamo, per cui sicuramente parte delle figure, dalle artiste e artisti, grafici, critici e così via, provengono dal territorio bolognese. Lo stesso vale anche per le altre associazioni o spazi indipendenti con le quali cerchiamo di portare avanti un progetto più ampio di network. A queste però si affiancano tante altre personalità nazionali e internazionali che abbiamo avuto modo di conoscere o scoprire sia personalmente sia grazie alla programmazione che portiamo avanti.
GM: Non prenderei troppo in considerazione il discorso in merito all’economia dell’arte, siamo giovani e i nostri progetti al momento non sono rivolti in tale direzione. È un passaggio che richiede del tempo e delle basi solide, i quali sono, a mio parere, i pilastri che permettono il successo economico di una realtà.
SG: Ho visto che la maggior parte delle persone con cui collaborate sono molto giovani. È un po’ quello che A Priori cerca di fare coinvolgendo chi ancora è in Accademia o ha da poco concluso il suo percorso. Le ragioni che vi hanno spinto ad aprire uno spazio trovano poi riferimento nella scelta degli artisti e nella vostra programmazione curatoriale? Come si pone quest’ultima nei confronti delle tematiche socioculturali care al contemporaneo?
NI: Certamente. A noi piace dare un’offerta il più eterogenea possibile e ciò influenza necessariamente la scelta volta a mantenere il nostro carattere ibrido. Vi sono poi due principali direzioni: le persone che selezioniamo e quelle che ci propongono un progetto di collaborazione. Uno dei principali interessi è quello di lavorare con artiste e artisti emergenti, ma non solo. Sicuramente all’inizio ci siamo rivolte a molti artisti e artiste che già conoscevamo, ma sempre tenendo conto delle tematiche artistiche contemporanee che ci interessava approfondire. Contemporaneamente, soprattutto mediante le Open Call, ci piace andare oltre la nostra comfort zone, aprirci a pratiche e ricerche differenti seppure l’aspetto contenutistico sia per noi sempre rilevante. Non vi è mai pura estetica e il dialogo, il fare insieme resta una delle nostre intenzioni anche nella programmazione degli eventi. Cerchiamo dunque di trasmettere con i nostri eventi differenti punti di vista, nuovi sguardi e spunti, mai risposte assolute.
LC: Sempre più frequentemente nelle città si fa sentire la necessità di aprire nuovi spazi di dialogo e ricerca. Che consiglio dareste a chi vorrebbe intraprendere questa strada?
NI: Abbiate sempre voglia di crescere e di imparare. Il dialogo e la ricerca portano con sé nuovi spunti e input di riflessione. È fondamentale però avere ben chiari gli obiettivi che si vogliono portare avanti e dunque le energie che ognuna o ognuno può investire nel progetto. È un lungo percorso in salita, ma carico di soddisfazioni.
GM: Confermo che deve essere molto chiaro a cosa si va incontro, non per forza essere organizzati ma sicuramente essere pronti a scontrarsi con tutti gli aspetti che aprire uno spazio comporta. Erroneamente si pensa che basti l’arte, in realtà come tutte le discipline, l’arte deve essere combinata ad aspetti tecnici e organizzativi che, se sottovalutati, portano problemi. È importante comunque creare queste realtà, e più siamo più ci si dà forza a vicenda.