Spazio indipendente come necessità e avanguardia. Intervista ai fondatori de La Siringe
a cura di Tabea Badami e Roberto Orlando
Enzo Calò, Gabriele Massaro e Davide Mineo, fondatori de La Siringe, raccontano come sia nato il loro spazio indipendente a Palermo, descrivendo le idee e i progetti che lo animano.
Quali ragioni vi hanno spinto a inaugurare uno spazio autogestito? Quale insieme di visioni, idee e convinzioni lo caratterizzano?
Enzo Calò: L’autogestione ci dà la possibilità di poter scegliere il lavoro e la ricerca di un artista, al di là di tutte le meccaniche che si possono creare normalmente a livello di sistema, siamo liberi di scegliere un lavoro maturo e di nostro interesse. Essendoci a Palermo un panorama ridotto rispetto agli spazi espositivi, ci interessa far vedere e far conoscere molti altri artisti che non sono nel circuito.
Davide Mineo: Penso che più che una volontà, quella di aprire uno spazio autogestito sia una necessità della nostra condizione, la condizione palermitana dal punto di vista artistico. È diventata una necessità, per noi, aprire uno spazio.
Gabriele Massaro: Di fatto questa necessità è data dal fatto che a Palermo sostanzialmente non c’è un sistema dell’arte, una struttura, quindi il nostro spazio diventa uno strumento, per noi, per creare rapporti, dialogare fuori dalla città ma anche al suo interno, creare un network, permettendoci di crescere grazie a questo strumento.
DM: Per quanto riguarda il punto di vista comune rispetto alla scelta di un artista piuttosto che un altro, penso che sia legato al portare avanti quella che è la nostra generazione. Poi chiaramente c’è la volontà di creare fermento culturale, cercare di fare un lavoro che, al di là di ogni equilibro di sistema, possa essere anche in una forma avanguardistica. Quindi un lavoro che non si limiti e si ridimensioni per un sistema, ma che sia interessante al di là di tutto. Da parte nostra proviamo a mantenere la volontà di uno spazio che non scenda a compromessi, sia dal punto di vista delle simpatie/antipatie sia rispetto a ciò che potrebbe dettarti il sistema. Quindi, in un certo senso, noi tentiamo di ignorare tutto questo, portando al centro dello spazio il lavoro in sé e per sé, più che le dinamiche di contorno.
GM: Ovviamente ognuno di noi ha un gusto personale, legato a una visione di un certo tipo di pittura, però guardando anche agli artisti che abbiamo scelto e che vorremmo scegliere in futuro, comunque non ci limitiamo alla nostra visione dell’arte, della pittura in particolare, ma scegliamo anche lavori che sono molto lontani dai nostri.
DM: Sì, cerchiamo di cogliere valore al di là del gusto personale.
GM: Esatto, però poi il filo conduttore può essere appunto quello del lavoro di ricerca che, come diceva Davide, non è un lavoro alla moda né di compromesso né tantomeno un lavoro che possa piacere facilmente.
All’interno del sistema dell’arte gli spazi indipendenti svolgono il ruolo fondamentale di trampolino di lancio per l’emergere di nuovi artisti, idee e valori che difficilmente troverebbero respiro negli spazi istituzionalizzati. Da un lato una forte spinta all’innovazione, dall’altro doversi confrontare con un sistema precario e instabile. Come vi ponete all’interno di questo clima? Potete contare su aiuti stabili?
DM: No, non abbiamo aiuti stabili né dal punto di vista economico né strutturale. È uno spazio autogestito in tutto e per tutto.
GM: Non ci sono nemmeno rapporti con le istituzioni, né con musei né con l’Accademia.
DM: Di fatto gli unici rapporti diretti che abbiamo sono con gli artisti e, quando interpelliamo dei curatori, con questi ultimi. Anche in questo caso, cerchiamo di portare avanti la nostra generazione che, per sfortuna o semplicemente per il periodo storico che viviamo, è una generazione che purtroppo ha poco a che fare con le istituzioni dell’arte. Realmente la nostra generazione non vive l’istituzione se non da spettatore ma raramente da protagonista. Fra coloro che sono considerati giovani artisti o della nostra generazione, di fatto sono pochi quelli che hanno a che fare con le istituzioni e, se ne hanno a che fare, non è un rapporto continuativo. Poi, a maggior ragione ritorna la questione di Palermo, un luogo in cui le istituzioni per l’arte contemporanea sono inesistenti. Vuoi o non vuoi, non abbiamo rapporti con nessuno in questo senso.
GM: Di fatto qua ci ricolleghiamo alla necessità di creare questo spazio, alla vera motivazione per la quale abbiamo deciso di aprirlo.
Le ragioni che vi hanno spinto ad aprire uno spazio trovano poi riferimento nella scelta degli artisti e nella vostra programmazione curatoriale? Come si pone quest’ultima nei confronti delle tematiche socio-culturali care al contemporaneo?
DM: Secondo me, come avevamo detto all’inizio, il non scendere a compromessi rispetto a un sistema è da riferire anche a noi stessi, nel senso che anche noi ci poniamo il problema di non far diventare noi stessi un sistema. Quindi, in realtà non c’è una linea guida rispetto agli artisti che scegliamo o sul perché suscitino un interesse particolare rispetto agli altri, se non appunto che un lavoro per noi può essere interessante, può avere direzioni diverse rispetto agli altri e un valore culturale notevole per la nostra generazione. Non abbiamo, però, delle linee guida prestabilite.
EC: È il lavoro in sé che ha la precedenza su tutto.
DM: E in ogni caso cerchiamo di fare attenzione a non diventare noi stessi, nel nostro piccolo, sistema perché se inizi a selezionare un lavoro piuttosto che un altro – chiaramente fai un minimo di selezione –, però se lo selezioni per gusto personale o per intenti sociali o per qualsiasi motivazione di altra natura, comunque già crei un mini sistema. E questa cosa a noi non interessa minimamente.
In che modo i vostri progetti continuano nel tempo e si inseriscono in un discorso – sempre che lo facciano – di economia dell’arte? Quali sono le figure con cui entrate maggiormente in contatto?
DM: Dal punto di vista economico, non abbiamo ingressi di alcun tipo. Ci preoccupiamo di averne ma non tramite le mostre, chiaramente stiamo pensando a un modo per riuscire a finanziare lo spazio, però senza diventare una galleria, perché se inizi a vendere i lavori allora diventi una galleria, in un certo senso.
Se, ipotizziamo, un artista dovesse venire da noi e riuscisse a vendere un lavoro esposto nello spazio, è una questione che non ci riguarda. È una questione che riguarda l’artista, che valuta se vendere o meno, a quanto vendere… Quelle sono questioni che non ci interessano perché noi non siamo una galleria di fatto, siamo degli artisti e il nostro interesse principale è fare gli artisti. Questo spazio in realtà, come diceva all’inizio Gabriele, è uno strumento per permetterci di farlo, però non pensiamo di entrare nell’economia dell’arte in quel senso.
GM: Alla fine il nostro spazio non è una galleria, non ha alcuna mira commerciale, ma è semplicemente uno spazio espositivo. Col passare del tempo, forse sentiremo la necessità di farlo evolvere, ma sicuramente non facendolo diventare una galleria, magari trovando un modo per autosostenerlo, però non con le modalità e gli intenti che può avere una galleria.
Potreste parlarci del nome dello spazio e delle sue caratteristiche fisiche? Che cosa vi ha colpito in particolare?
DM: Il nome dello spazio, La Siringe, non è altro che l’equivalente delle corde vocali per gli uccelli, a cui abbiamo fatto riferimento da un lato perché ci troviamo in Via Merlo e il merlo è famoso per il suo canto, dall’altro perché lo spazio era una sala prove, quindi era un luogo legato al suono. Da qui nasce il nome La Siringe.
Per quando riguarda le caratteristiche fisiche, è uno spazio che ha un carattere suo, non è un white cube. Ha un carattere molto forte e, in un certo senso, è anche uno spazio estremamente difficile, motivo per cui fare una mostra a La Siringe è uno sforzo notevole per chi la realizza. Il fatto che lo spazio crei una difficoltà ti porta a sforzarti e a superare, in un certo senso, il tuo lavoro perché è uno spazio stimolante, vista la conformazione delle pareti, deformate e completamente storte, sia cromaticamente che strutturalmente. Ci interessava uno spazio che non fosse un white cube e in questo senso lo spazio ci ha colpito molto, oltre alla sua ubicazione in quanto siamo nel centro di Palermo, accanto alla Chiesa di San Francesco, una zona della città che presenta una sua aurea particolare, ha una sorta di pace, di tranquillità.
EC: È uno spazio che sin da subito ti affascina, come se già in sé fosse un lavoro e il voler intervenire su quello spazio lì è una sfida, uno stimolo, come diceva Davide. Penso che anche noi tre saremmo curiosi di vedere come potremmo intervenire, c’è lo stimolo che arriva agli artisti, tra l’altro, ed è molto interessante vedere come ogni artista percepisca lo spazio. Per esempio Veronica Vassallo, la prima ragazza che abbiamo ospitato, ha percepito una verticalità del pavimento e il fondo della stanza, mentre altri artisti agiscono in altri modi. Ognuno coglie quella specifica visione, frammento della parete o inclinazione.
GM: È uno spazio che ti costringe a dialogare con lo spazio stesso perché, anche se fai pittura in maniera tradizionale, non puoi approcciarti allo spazio mettendo un quadro come in un white cube. Devi ragionare perché lo spazio è molto connotato e forte e il rischio è che si perda il lavoro e lo spazio lo schiacci, in un certo qual modo.
EC: Vuoi o non vuoi, ti fa crescere il lavoro. Nel momento il cui un artista espone in quello spazio, si mette alla prova e cresce, sia se fa dei lavori site-specific, come Veronica, sia se realizza dei quadri, come Miro Ragusa. Lo spazio ti stimola a rivedere ciò che normalmente potresti fare in uno spazio bianco.
A tal proposito, pensate che la scelta di un luogo anticonvezionale sia una necessità generazionale sotto forma di resistenza all’asetticità dei white cube?
GM: Forse sì, ma forse non è una cosa assoluta. Nel senso che magari noi siamo stimolati da questa cosa, ma probabilmente non tutti quelli della nostra generazione farebbero allo stesso modo.
DM: Secondo me, questa cosa dipende molto pure dal luogo in cui vivi, dalla città, dalle circostanze. Magari a Milano aprire uno spazio rude…
GM: Forse nemmeno trovi uno spazio simile…
DM: Oppure se aprire uno spazio che non sia un white cube diventa una tendenza, allora la cosa parte con il piede sbagliato. In realtà quello spazio, come tanti altri di Palermo, non è dovuto al voler andare controtendenza rispetto al sistema, è perché Palermo è così, è un palazzo storico, una parte di Palazzo Merlo. Chiaramente, Palermo in questo senso è iperstratificata. Poi c’è un carattere estetico che è avanguardia, in un certo senso, perché comunque va contro l’idea di white cube, quindi di uno spazio totalmente asettico. Però, secondo me, quando è in una città come Palermo allora è giustificato. Quando lo devi fare perché semplicemente devi andare controtendenza rispetto a un sistema, che può essere quello classico della galleria, già anche lì stai facendo una mossa classica.
GM: Però dipende… Metti che a Milano non ci sia uno spazio così, e tu lo trovi e lo scegli appositamente.
DM: Può darsi, però è come creare l’aspetto selvaggio in un posto che… diventa forse un po’ un circo, non lo so…
EC: Sì, diventa la spettacolarizzazione dello spazio in sé come caratteristico, quando non lo è.
GM: C’è pure da dire, però, che sapendo com’è Palermo ti puoi anche aspettare che uno spazio indipendente sia come il nostro.
EC: È esattamente una visione che si ha da palermitano di spazi così, come se lo avessimo nel dna.
GM: No, io volevo dire che potrebbe anche essere una cosa scontata visto che sei a Palermo.
DM: Sì, infatti questa cosa è proprio al limite in entrambe le direzioni.
GM: Secondo me, probabilmente non c’è una risposta assoluta.
DM: Effettivamente è un attimo che tu sei sia da un lato che dall’altro.
Tra i vostri obiettivi c’è la volontà di instaurare una rete di collaborazioni con altri spazi indipendenti?
DM: Sì, è una cosa che abbiamo già fatto e che, se capiterà l’occasione, faremo nuovamente. Come abbiamo già detto prima, per noi come artisti diventa un investimento anche creare una rete di contatti con altre realtà.
EC: Anche il confrontarsi a livello artistico, di dialogo, è proprio una necessità che abbiamo.
Dalla fondazione de La Siringe a oggi, avete colto l’occasione per interagire e dialogare con altri artisti che hanno deciso di intraprendere un percorso analogo al vostro e dedicarsi alla gestione di uno spazio indipendente. Avete riconosciuto affinità o discrepanze con le loro ricerche artistiche?
DM: Sicuramente c’è una direzione comune rispetto ai lavori. Ci sono vari filoni, però io comunque riesco a vedere delle macroaree comuni nella nostra generazione.
GM: Ci sono dei concetti, dei fili conduttori, che accomunano il modo di intendere e fare arte.
DM: Chiaramente ci sono poi cose molto diverse, per esempio io e te, Roberto, come tanti altri partiamo da un’idea di pittura che cerca una dimensione tridimensionale ed è una cosa che io noto in molti della nostra generazione. Però Gabriele continua a fare un lavoro che è strettamente legato all’idea tradizionale di pittura, così come Vincenzo Ferlita, Miro, e tanti altri. Io, per esempio, riconosco anche che ci sia una forma palermitana di pittura femminile che rivedo in molte pittrici, questa forma di pittura legata a un’idea di corpo organico. Quindi, sicuramente ci sono delle macrodirezioni, poi chiaramente ognuno ha i propri sviluppi.
GM: Rispetto agli artisti che abbiamo ospitato e con cui ci siamo confrontati, devo dire che c’è un legame più stretto con gli artisti locali in merito alle idee di lavoro, minore invece con gli artisti provenienti da altre parti d’Italia. Mi sembrava quasi fisiologico, ovviamente. Anche se, come diceva Davide, si possono definire delle macroaree, dei concetti base che alla fine legano un po’ i lavori di tutta una generazione, che è la nostra.
Qual è stata finora la risposta da parte del pubblico?
DM: La risposta è stata abbastanza soddisfacente.
GM: Positiva. C’è da dire, comunque, che il pubblico è quello dell’arte di Palermo. Fino a ora non si è riusciti a coinvolgere altra gente se non quella che già è nell’ambito dell’arte contemporanea di Palermo. Ritornando alle istituzioni, anche le figure a esse legate non so quanto siano state coinvolte e attratte da questa cosa.
DM: A parte il pubblico che uno si aspetta, chiaramente Palermo non è una città infinita, quindi poi sai, bene o male, che le persone che frequentano quell’ambiente sono quelle cento persone che vedi più o meno sempre. Effettivamente, da parte dei rappresentati delle istituzioni c’è stato poco interesse, nonostante da parte nostra ci siano stati degli inviti espliciti. Quello forse un po’ manca.
GM: E fa capire anche in che situazione ci troviamo.
DM: Sì, esatto, perché a Palermo in ogni caso non ci sono cento spazi indipendenti, ce ne sono ora cinque, quindi non è neanche impegnativo andare una volta al mese in un posto.
Negli ultimi dieci anni si è delineata e affermata la figura del curatore e la pratica della curatela si è diffusa sempre più. Che rapporto avete instaurato con i curatori incontrati fino a ora? Pensate possano offrire nuove chiavi di lettura alla ricerca dell’artista e agli intenti programmatici su cui si fonda uno spazio indipendente?
DM: La questione del curatore è una cosa che facciamo decidere all’artista, nel senso che quando viene l’artista noi intanto chiediamo se lo vuole – non è detto che lo voglia – e, in tal caso, chiediamo se abbia dei nomi in mente, altrimenti noi proponiamo qualche nome. Questa è una visione molto personale, secondo me la figura di un curatore è interessante, anche per l’artista, nel senso che molto spesso, almeno per come l’ho vissuta io, il semplice fatto di dover parlare in maniera approfondita e anche un po’ intima del tuo lavoro, con una persona che in effetti non lo conosce o comunque lo sta conoscendo, ti impone un’attenzione su te stesso e, probabilmente, già il fatto di parlarne ti fa capire delle cose. E poi, se chi hai davanti è una persona interessante, brava, che sa fare il suo lavoro, magari riesce a dirti delle parole, a darti delle soluzioni teoriche e no, alle quali forse tu non pensavi. Quindi in ogni caso è un rapporto che, secondo me, è sempre interessante.
GM: Poi c’è da dire che magari di queste figure a Palermo non ce ne sono tantissime e, da un punto di vista pratico, sono delle figure importanti perché possono diventare quei tramiti fra degli spazi come il nostro, artisti come noi, e gli spazi istituzionali. Quindi, in un certo senso il coinvolgimento della figura del curatore è molto importante, in una visione di crescita e di sviluppo di un sistema dell’arte a Palermo.
DM: A Palermo per quanto riguarda la nuova generazione, sia come artisti sia come figure “teoriche” dell’arte, secondo me c’è un bel panorama. Che crescano gli artisti e di pari passo i curatori è una cosa fondamentale per creare un sistema.
EC: Anche in questo coinvolgiamo nuovi curatori che fanno parte della nostra generazione.
In sempre più città si fa sentire la necessità di aprire nuovi spazi di dialogo e ricerca.
Che consiglio dareste a chi vorrebbe intraprendere questa strada?
EC: Dialogo e ricerca sono fondamentali. Se noi pensiamo a quando, anche in precedenza, avevo lo studio con Gabriele, noi cercavamo sempre un dialogo con altri artisti, a livello di ricerca e confronto lo spazio è fondamentale.
DM: Sicuramente è quello che abbiamo detto prima, ossia la volontà di non scendere a compromessi, una voglia di fare ricerca e di fare avanguardia. Poi a volte semplicemente è più importante fare che pensare di farlo, cioè se è una necessità lo fai, punto e basta.
EC: Esatto, nasce da una necessità che si comincia ad attuare nel fare.
GM: Infatti, secondo me è importante domandarsi perché si abbia la volontà di farlo. Dicevamo, appunto, che in una città come Palermo magari è una necessità, però in altre città potrebbe essere una moda, una cosa che si fa perché la fanno un po’ tutti. Quindi domandarsi perché si ha la volontà di aprire uno spazio indipendente, secondo me è importante.